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Caratteristica dell’opera

In totale nel trattato ci sono 93 indovinelli: 21 nella prima parte, 38 nella seconda, 27 nella terza e 7 nella quarta. Nell’insieme si presenta compatto perché quasi interamente composto da giochi e indovinelli matematici. L’opera acquisisce una ulteriore organicità con le parti introduttive dedicate a Giuliano de’ Medici e alla sua famiglia. L’intento dell’autore risulta palese: aggiudicarsi i favori della potente famiglia al cui servizio c’era già stato il nonno di Piero da Filicaia.

Uno sguardo più attento rivela che le prime tre parti dipendono fortemente da De viribus quantitatis di Luca Pacioli e la quarta parte da Ludi matematici di Leon Battista Alberti.

Contenuti

Il trattato si divide in quattro parti. Nella prima parte vengono presentati degli indovinelli di aritmetica dedicati ai vari modi per indovinare un numero. Nella seconda parte, come del resto nella prima, gli indovinelli riguardano l’aritmetica, ma ci sono giochi più elaborati, quadrati magici e anche gli indovinelli con le carte da gioco. Per esempio, nella demostratio (sic!) quinta Filicaia spiega come indovinare in quali quattro parti sia stata divisa una determinata somma. Anche per questa parte la fonte principale, seppur modificata, rimane il trattato di Pacioli, di pochi anni antecedente. Nelle parti successive Filicaia si presenta meno schematico e ripetitivo, pur seguendo fedelmente le sue fonti. La terza parte è composta da indovinelli e aneddoti (si chiamano casi) che non richiedono un calcolo di numeri, bensì soprattutto una riflessione, come nel caso dell’indovinello sui mariti gelosi oppure quello sulla divisione del vino da una botte tra due fratelli (la fonte principale è ancora una volta Pacioli). La quarta parte, infine, ricalca fedelmente la parte iniziale del trattato Ludi matematici di Leon Battista Alberti, dove i contenuti sono legati alla geometria, p.es. il calcolo dell’altezza di una torre o della profondità del pozzo.

Luca Pacioli

Luca Pacioli, diretta ispirazione e modello del trattato di Filicaia, fu il più noto e importante matematico della fine del Quattrocento e dell’inizio del Cinquecento. Sulla sua figura sono stati spesi fiumi d’inchiostro, soprattutto sul soggiorno milanese che lo vede alla corte di Ludovico Sforza, amico di Leonardo da Vinci con cui condivide anche l’esilio da Milano e le peregrinazioni dopo il 1499. Anche l’importanza di Pacioli per la ragioneria e per la lingua dell’economia fu oggetto di studi storici e linguistici (cfr. Mattesini 2007; Ricci 1994; Sosnowski 2006). In quest’ultimo studio è stata pubblicata anche una sintetica biografia di Pacioli che riportiamo qui, abbreviata e leggermente rielaborata (Sosnowski 2006, 63–69).

Frate Luca Bartolomeo Pacioli nacque attorno al 1446-1448 a Borgo San Sepolcro. La città è situata alla periferia della Toscana. Della gioventù e della famiglia di Pacioli abbiamo poche notizie che derivano per lo più dai suoi accenni nella Summa e nei testamenti (Vianello 1896, 167–74) (Boncompagni 1879, 871–72). Suo padre, Bartolomeo, doveva far parte di una famiglia di una certa importanza, se sono vere le affermazioni di Pacioli circa la parentela con un certo Benedetto Baiardo, «mio stretto affine [...] capitano dei fanti, prima de lo re Alfonso in lo reame, poi de Sancta Chiesa al tempo di Nicola....» (Pacioli 1509, fgl. 23v).

Fino alla morte Pacioli rimase legato alla città d’origine dove fu ordinato frate francescano e dove ritornava spesso, ospite del convento di cui divenne commissario nel 1510. Nonostante alcuni contrasti con l’ordine, tra cui il divieto di insegnare ai ragazzi della sua città del 1491 (Yamey 1994, 15), i suoi rapporti con la confraternita francescana possono definirsi buoni. L’elezione a commissario e i numerosi passi della Summa, in cui esprime riconoscenza per i superiori, supportano questa tesi (Vianello 1896, 35).

Trascorse la gioventù a Sansepolcro e soprattutto a Venezia dove seguì le lezioni di matematica di Domenico Bragadino presso la Scuola di Rialto e scrisse il suo primo trattatello di aritmetica, destinato ai figli del mercante Rompiasi che lo ospitava. Sulla sua formazione di matematico ebbero un influsso notevole gli incontri e le amicizie con Piero della Francesca e con Leon Battista Alberti (Vianello 1896, 15), a cui ispirò stima e simpatia e di cui fu sincero ammiratore.

Tra il 1470 e 1477, Pacioli, già allora autore di almeno un trattato matematico (dedicato ai figli del Rompiasi), divenne frate dell’ordine francescano a Sansepolcro. Da allora, con il permesso dei superiori, viaggiando in Italia, insegnava matematica e completava gli studi. Dal 1475 al 1480 visse a Perugia dove insegnò matematica, dapprima privatamente e, dal 1477, come pubblico insegnante di matematica presso lo studio perugino (Ciocci 2017, 69). Nel 1480 soggiornò a Zara, poi a Venezia, a Firenze, dove conobbe Piero Soderini, a Roma e a Napoli (Conterio 1994: 47). In quegli anni la sua fama di eccelso matematico crebbe immensamente tant’è vero che, quando arrivò a Napoli, non ebbe difficoltà a stringere amicizia con le élites della città da cui fu accolto con entusiasmo (Morison 1933, 3).

I successivi viaggi lo portarono a Venezia nel 1494 per seguire la pubblicazione della Summa, a Milano nel 1496 dove rimase fino al 1499, chiamato da Ludovico Sforza a insegnare matematica presso lo studio milanese. Divenne amico di Leonardo da Vinci e lavorò con lui, aiutandolo e ricevendo il suo aiuto. Leonardo eseguì i disegni per l’opera di Pacioli De Divina Proportione (1497); in cambio, Pacioli l’avrebbe aiutato nell’esecuzione di alcuni calcoli (si crede che calcolò quanto bronzo sarebbe servito per eseguire la statua di Ludovico Sforza di Milano) (Jayawardene 1974, 269-272).

Nel 1499 dovette, insieme a Leonardo, fuggire da Milano a causa dell’esilio del loro mecenate, Ludovico Sforza. Successivamente Pacioli insegnò a Firenze, Bologna, poi di nuovo a Perugia, a Roma e infine nel 1508 tornò a Venezia per curare di persona l’edizione della Divina proportione dedicata al Soderini. Visse una vita attiva, tra l’insegnamento nelle varie università e la pubblicazione di opere che accrescevano la sua popolarità e aumentavano il numero degli inviti che gli arrivavano. Infatti, oltre alle città citate prima, è attestata la presenza di Pacioli a Padova, alla corte dei Montefeltro di Urbino e a Pisa. Con il passar degli anni, in età avanzata, forse limitò i viaggi e gli insegnamenti ritornando stabilmente nel convento di Borgo Sansepolcro di cui divenne commissario nel 1510. Ancora una volta non resistette alla tentazione di tornare a insegnare matematica: nel 1514 lo ritroviamo a Roma su invito del papa Leone X. Era, quindi apprezzato anche dagli ambienti medicei. Il periodo romano è l’ultima attestazione dell’insegnamento tenuto da Pacioli; probabilmente morì nel 1517 o 1518.

Pacioli fu, nel vero senso dell’espressione, un uomo rinascimentale in quanto aveva acquisito la conoscenza di diversi settori tecnici: commercio, scienze militari, matematica, medicina, arte, musica, legge. Credeva insieme ai suoi contemporanei alla necessità di collegare tutte queste diverse discipline e al ruolo particolare delle discipline pure come l’aritmetica e la geometria. Soprattutto la proporzione, a cui dedicò un intero trattato, veniva vissuta da lui e dai suoi contemporanei come questione centrale delle svariate discipline quali l’architettura, l’ingegneria militare, la musica, la cartografia, il diritto, la grammatica e la pittura (Yamey 1994, 12). Pacioli si interessò vivamente all’arte, alla filosofia neoplatonica, la cui ricerca dell’armonia universale ispirava anche la ricerca matematica, ai vari aspetti della vita quotidiana come dimostrano gli esempi riportati nelle sue opere. Non disdegnava la fama e gli splendori che non tardavano a venire. Considerato il più famoso matematico dei suoi tempi, fu celebrato da artisti, conteso da principi e università. Nel 1508, a Venezia, tenne una lezione su Euclide, a cui parteciparono tutti i personaggi di spicco allora presenti in città. Con una dose di vanità, nel 1509, pubblicando un commentario all’edizione latina del quinto libro degli Elementi di Euclide, frutto di quella lezione veneziana, Pacioli ne enumerò 94 tra i più significativi (Nardi 1971, 69).

Tuttavia, l’opera di Pacioli che ci interessa nel contesto dei giochi matematici da noi editi è De viribus quantitatis, trattato rimasto manoscritto, noto attraverso un solo codice (Biblioteca Universitaria di Bologna ms. 250), pubblicato solo recentemente nella trascrizione di Maria Garlaschi Peirani (Pacioli 1997).

De viribus quantitatis ha più parti che sono diverse tra di loro, come nota Montebelli (1998). Nella prima, dedicata alla forza dei numeri, ci sono 80 effecti (Pacioli parla di 81, ma uno degli effecti, quello al n. 53, manca). Il gioco di questo tipo, “forza dei numeri”, non è altro che gioco di prestigio o gioco di società. Nella seconda parte dedicata alla virtù geometrica ci sono 134 “capituli” di cui la maggior parte (80), dedicati alla costruzione di figure geometriche con riga e compasso (Montebelli 1998, 314) e altri sono curiosità, invenzioni tecniche e giochi di prestigio basati sulla fisica. Inoltre, ci sono altri “capituli” che Montebelli definisce topologici (Ibidem) e un certo numero di varia di carattere più generale e, a volte letterario come un componimento poetico, vari proverbi, documenti e proverbi dei mercanti (Ibidem).

La terza parte tratta «della forza e virtù naturale nel scrivere». Ci sono quindi ricette per realizzare l’inchiostro invisibile, per fare un buon inchiostro, per preparare la tintura per i capelli, per fare polvere da bombarda, insomma una serie di ricette che hanno a che fare con la chimica. Comunque, queste ricette sono anche indirizzate a suscitare meraviglia all'interno della compagnia, quindi si torna idealmente a giochi veri e propri. Giochi di prestigio, giochi di compagnia che devono allietare e meravigliare. Per esempio, si parla di come tagliare un frutto senza tagliare la scorza, come far camminare un uovo sul tavolo e altri simili.  Dopo la terza parte troviamo una raccolta del materiale eterogeneo intitolato De problematibus et enigmatibus litteralibus che si compone di giochi di parole, di indovinelli e rebus. A chiudere il trattato ci sono indovinelli in volgare, divertenti, curiosi e addirittura licenziosi i cui doppi sensi sono giustificati da Pacioli all’inizio.

Come nota Montebelli (1998, 315), l’opera di Pacioli non presenta contenuti omogenei, ma nello stesso tempo si tratta di un testo che si inserisce nella tradizione coeva, quella dei “libri-zibaldone cui appartengono tanti manuali tecnici, libri d’abaco e di bottega allora circolanti.”

Il testo è quindi scritto per fini utilitaristici, applicativi, essendo stati gli argomenti teorici affrontati nella Summa pubblicata nel 1494. Il filo conduttore dell’intero trattato è la forza della quantità (aritmetica e geometrica) che deve suscitare meraviglia e stupore. Montebelli parla di “magia naturale che ha il suo fondamento nella scienza” (1998, 317). Alla fine, De viribus ha come scopo l'intrattenimento, a volte indiretto, come quando vengono presentati certi paradossi scientifici che non divertono di per sé, ma inducono a una riflessione derivata dallo stupore. Sono quindi libri che devono incuriosire e suscitare nei lettori benevolenza verso la scienza.

Montebelli (Montebelli 1998, 319) nota che Pacioli in molti passi del De viribus testimonia la diffusione del gioco matematico e non solo nella società coeva. Essi erano presenti nelle scuole d’abaco, nelle corti e nelle strade. Quella che più può interessare è la testimonianza sulle corti dove, secondo Pacioli, c. 73v-74r, I, XXXIIII, si fa il gioco che consiste nel sommare da parte di due giocatori alternativamente numeri da 1 a 6, dove per vincere bisogna arrivare a 30 senza andare oltre.

Raggruppamento dei giochi matematici in De viribus (Montebelli 1998, 323-324):

  1. indovinare un numero pensato, intero o frazionario. 25 giochi. Sono gli effecti: 7-23, 26-31, 33, 45;
  2. indovinare le parti in cui un numero dato è stato diviso (2,3,4,5 parti). Sono 1-6, 39 ed eventualmente 38, 41 e 44;
  3. distribuzione di oggetti a persone e poi indovinare chi ha che cosa, eventualmente in che mano ecc. Si tratta degli “effecti”: 35-37, 40, 42-43;
  4. indovinare l’oggetto pensato fra gli oggetti esposti sul tavolo: 62, 64, 69, 74, 75;
  5. disposte delle monete in mucchi successivi, scelto il mucchio, indovinare il contenuto di altri mucchi: 76-78. In 79 la regola generale “per trovare la somma dei primi n termini di una progressione aritmetica” (Montebelli 1998, 324).

Ci sono poi giochi di abilità adatti come sfide – Pacioli spiega come vincere a questi giochi. Ci sono poi giochi, quantificati da Montebelli come il 28% (Montebelli 1998, 324), che sono problemi curiosi, senza la necessità di usare la matematica, ma solo il ragionamento. Sono: 46-61, 65-68, 70, 73.

Il confronto tra De viribus e Giuochi di Filicaia mostra da una parte una profonda dipendenza di quest’ultimo da Pacioli (cf. sotto) e dall’altra la maggiore compattezza e concentrazione solo sull’argomento dei giochi e indovinelli. Da un punto di vista della matematica, sia De viribus che i Giuochi di Filicaia non costituiscono nessuna novità, ma testimoniano una cultura diffusa in quel periodo, quella cultura medio-alta degli strati nobiliari e borghesi.

Schema di confronto tra Filicaia e Pacioli elaborato da Elisabetta Ulivi (pdf)

Leon Battista Alberti

Quarta parte dei Giuochi mathematici

La parte quarta raccoglie dei problemi che, nonostante il loro indiscusso carattere appunto matematico, in realtà non possono essere pienamente definiti indovinelli. Nel testo portano il nome di investigationes.

La fonte diretta di questa parte del trattato è l’opera di Leon Battista Alberti Ludi matematici (conosciuta anche come Ludi rerum mathematicarum o Ex ludis rerum mathematicarum). Ciò risulta chiaro sia dal testo dall’iconografia, pressoché identica. Le illustrazioni nelle carte 166r, 167r, 169r, 170v, 172r, 172v, 174r del manoscritto Ital. Quart. 48 seguono fedelmente le illustrazioni provenienti dal trattato di Alberti realizzato più di mezzo secolo prima (antecedente al 1452). Le investigationes, in numero di sette, si ispirano al testo dell’inizio dell’opera dell’Alberti (si tratta dei problemi dall’1 all’8, tra cui 6a e 6b, mentre il terzo e il quinto problema di Alberti sono stati saltati da Filicaia). Questo confronto di contenuti è stato da noi effettuato in base alla pubblicazione di Cecil Grayson (Alberti 1973) e all’articolo di Fabio Mercanti e Paola Landra (Mercanti e Landra 2007: 22–32). Le prime sei investigationes riguardano l’altezza e la larghezza, mentre la settima investigatio riguarda la profondità.

Sorge la domanda, ovvia a questo punto, perché Filicaia si era deciso a rielaborare il trattato di Alberti che, tra l’altro, risulta sfruttato solo in parte (circa un terzo)? Non è facile rispondere a tale domanda. La quarta parte non è innovativa, ma ha in sé qualcosa di pratico che forse nelle previsioni del Nostro poteva piacere al dedicatario del trattato, il nuovo signore di Firenze, Giuliano di Lorenzo de’ Medici, Duca di Nemours. Questo, oltre al titolo di Ludi cioè ‘giochi’ doveva attrarre Filicaia tanto da inglobare, pur rielaborandola, una parte del trattato di Leon Battista Alberti. Vale la pena di ricordare le giustificazioni con cui Filicaia affronta la sua dipendenza da predecessori, rivendicando nello stesso momento la propria originalità (f. 4r):

Potrebbe qua dire alcuno: Piero, sta fermo uno pocho; onde hai tu tracto questi tui secreti? Tu li hai rubbati. A che respondo brevemente che niuno in questo mondo è indovino né equale a omnipotente Idio che omni cosa sa et cognosce; et pertanto, se io ho racolto di più luoghi questi mia secreti et forze et forse parte rubbati et a questo e a quello, non sia in questa parte nessuno che me riphrenda  […] Et bene è virtù et ingenio mirabile et a suo proposito el saper rubbare et acomodare nelle cose virtuose.

Poi, Filicaia cita un proverbio, come se si volesse discolpare dalle accuse di non essere innovativo: “nihil dicitur quod non sit dictum prius”.  Tuttavia, rimarrebbe anche il discorso tutto filologico sia sui contenuti e sulla filologia Ludi albertiani sia sul testimone concreto dei Ludi che Filicaia aveva a disposizione. Rimandiamo per la prima discussione a quanto già scritto da altri (Alberti 1973, Geymonat 1980, D’Amore 2005, Mercanti e Landra 2007) e per il rapporto tra Alberti e il Nostro ci limitiamo al confronto contenutistico sperando di potere in un secondo momento approfondire anche gli aspetti filologici.

La tabella di confronto tra il nostro trattato e i Ludi di Leon Battista Alberti permette di verificare il grado di corrispondenza tra i due. Ecco lo schema con i risultati del nostro confronto (pdf).

1 Questa parte si chiama „problemata vulgari a solicitar ingegno e a solazzo”.