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Dedicatario

Piero da Filicaia dedica il proprio trattato a Giuliano de’ Medici, figlio di Lorenzo, fratello del Leone X. Chi era questo personaggio che “Leonardo, Raffaello, Michelangelo, Baldassare Peruzzi, Fra Giocondo apprezzarono [...], come mecenate intelligente ed amico generoso” (Sticco 1940, 143)? A cui volevano dedicare (Machiavelli) o dedicavano (la seconda edizione di Vitruvio di Fra Giocondo, l’aritmetica del Calandri) le proprie opere alcune delle più interessanti menti del Rinascimento? Che ritroviamo immancabilmente come personaggio in molti dei più importanti testi dell’inizio del Cinquecento dove “presenta una parte geniale e simpatica di gentiluomo colto, raffinato, dal gusto perfetto, dalla conversazione sempre piacevole” (Sticco 1940, 141). Benvoluto da chi lo conosceva di persona sia negli anni di esilio sia poi, come padrone di Firenze. Dai sovrani e dagli amici. Dai popolani e fini letterati.

Giovinezza

Nato nel 1479, Giuliano era il figlio più giovane di Lorenzo il Magnifico. Dopo la morte del padre fu, insieme ai fratelli, esiliato da Firenze. Aveva vissuto in esilio fino al 1512 quando, cambiato l’equilibrio politico della Penisola, ancora sotto il papa Giulio II, il potere dei Medici fu ripristinato a Firenze. Gli anni più lunghi e, probabilmente, più belli furono quelli passati alla corte di Urbino (1503-1512).

Si tratta di un personaggio di grande fascino, più di altri fratelli provvisto delle doti che caratterizzavano il padre - Lorenzo de’ Medici. Magnanimo, leale, con interessi letterari, incarnava agli occhi dei contemporanei l’ideale dell’uomo di corte. Si dimostrava valoroso e leale nella guerra. Più di altri lo testimonia l’episodio del 1499 che lo vide protagonista nel tentativo di penetrare a Firenze con le truppe raccolte con l’aiuto dei veneziani. Dopo gli iniziali successi dell’esercito schierato con i Medici e l’occupazione di Bibbiena presa con l’inganno, arrivarono i momenti difficili in cui i soldati, non pagati, cominciavano a disertare il campo. Giuliano, nonostante la situazione disperata, abbandonato anche dal Duca d’Urbino che si era ritirato dichiarandosi malato, si comportò in maniera nobile e leale, rifiutando il salvacondotto offerto da Vitelli, il capo dei fiorentini (Medici 1939, XVIII). Rimase fino alla fine delle battaglie con il proprio esercito, sebbene non ci fosse speranza di vincere.

In seguito, Giuliano andò a Venezia per implorare l’aiuto della Repubblica alla causa dei Medici. Ciò non diede risultati politici, ma gli permise di riprendere la frequentazione di Pietro Bembo che aveva conosciuto in età infantile (Medici 1939, XIX).

Ripercorriamo le fasi cruciali della sua vita assieme a chi ne ha tracciato il profilo biografico e alle testimonianze offerte dai cronisti e amici letterati. Giuliano nasce a Firenze il 12 marzo 1479, terzo figlio maschio di Lorenzo di Piero de’ Medici e di Clarice Orsini. I fratelli più grandi, Piero e Giovanni, erano destinati il primo a succedere al padre, il secondo a intraprendere un’importante carriera ecclesiastica. Giuliano rimaneva affidato alla tutela al canonico Matteo Franco che nel 1485 era una sorta di ‘maestro elementare’ di casa Medici. Egli descriveva Giuliano in una lettera a Piero da Bibbiena con le seguenti parole: “vinolino e freschellino com’una rosa; gentile pulito e nettolino come uno specchio; lieto e tutto contemplativo con quegli occhi...”(Medici 1939, VIII). Dopo il primo periodo passato con il precettore Franco, assieme a Giovanni e al cugino Giulio seguiva le lezioni di Bartolomeo da Pratovecchio, Bernardo Michelozzi e Gregorio Spoletino. Sul carattere del giovane Giuliano da una parte ci informa il cronista Cerretano secondo cui il padre Lorenzo diceva che: “aveva uno filgliolo armigero, questo era Piero, uno buono, questo era il chardinale, uno savio, questo era Giuliano” (Medici 1939, IX), e dall’altra, Piero Parenti, antimediceo, che riporta l’episodio dell’agosto 1493 in cui Giuliano, appena quindicenne, perde un dito per questioni di donne (Parenti 1994, 58). Lo stesso Parenti, in seguito, descrive Giuliano come “più che il dovuto ardito e voglioso” e aggiunge che “una notte tagliato a pezzi non fussi, per il che scandolo a generare s’avessi”, spiegando così la partenza con il fratello Giovanni per Roma avvenuta nell’ottobre 1494 (Parenti 1994, 110). A partire dal 1494, periodo della forzata maturazione a seguito dell’esilio, ritroviamo Giuliano sempre accanto al fratello Piero nelle varie imprese volte a riconquistare il potere a Firenze. Piero di Marco Parenti annota vari episodi a ciò legati:

1495 “El conte Ugo della Gherardesca, col mezzo del signore di Piombino, pratica tenne di rimettere in Firenze Giuliano di Lorenzo de’ Medici suo genero.” (Parenti 1994, 209)

1498 Nel settembre 1498 Giuliano partì verso Firenze e prese Marradi, ma poi dovette ritornare per la Val di Lamone a Faenza (Parenti 1994, 299)

1500 Nel dicembre ha luogo un altro tentativo (con il duca Valentino ) di restaurazione dei Medici a cui partecipa anche Giuliano (Parenti 1994, 406)

1501 Nel novembre di nuovo i Medici tentano nuovamente di rientrare con l’appoggio della Francia. Ma in realtà si trattava di un ricatto della Francia ai danni di Firenze. I francesi non avevano nessun forte interesse a restaurare il governo della famiglia medicea.

In generale, i primi anni dell’esilio furono segnati da attività diplomatiche e belliche con la speranza dell’imminente ritorno in patria. Molte speranze erano legate alla Francia, a Luigi XII, alla corte del quale Giuliano spesso soggiornava. Durante uno dei soggiorni di Giuliano in Francia vi erano presenti anche ambasciatori fiorentini (tra cui Francesco Soderini, Luca Antonio degli Albizi e Biagio Buonaccorsi) (Buonaccorsi 1999, XV). I messi del giglio passarono in Francia il periodo dal settembre 1501 al luglio 1502 e “vi consumarono in vano circa a otto mesi senza avere mai una buona parola, anzi ributtati sempre con modi villani dal re, dal Roano e da tutta la corte, e fatto in presenzia loro e date lunghe audienze a Giuliano de’ Medici” (Guicciardini 1931, 217). Queste parole di Guicciardini dimostrano l’affetto di cui era circondato Giuliano alla corte parigina, un affetto, bisogna sottolinearlo, che non si tramutava in risultati politici concreti. Il re francese stava facendo pesanti richieste economiche alla città di Firenze e teneva Giuliano (pur sempre circondato di sincero affetto), in maniera più o meno consapevole, come una specie di spauracchio contro la resistenza del governo fiorentino.

A Urbino

Le parole nel Dizionario Biografico degli Italiani sintetizzano efficacemente il periodo centrale della vita di Giuliano:

La morte di Piero de’ Medici, nel dicembre 1503, segnò la fine delle speranze di restaurazione medicea e fu un grave colpo personale per il M., il quale da quel momento visse prevalentemente a Urbino presso il duca Guidubaldo (morto nel 1508) e poi presso il suo successore, Francesco Maria Della Rovere, coltivando i piaceri letterari e mondani di una corte raffinata. (Tabacchi 2009)

A Urbino Giuliano visse i suoi anni felici, anni che condivideva con i personaggi più illustri dell’epoca che costruirono il mito di Urbino, terra promessa e corte ideale in una città ideale. Lì, completando la sua educazione, si potè abbandonare “al godimento intellettuale che la corte di Guidobaldo sapeva dispensare così nobilmente a quanti avevano innato il culto del bello. Quivi raggiunse quella squisita raffinatezza di modi e di parola che lo fece apparire «uomo più presto da corte che da guerra», più adatto cioè ad essere il modello dell’elegante conversatore e del perfetto cortigiano che del guerriero” (Medici 1939, XXVII).

Di questo periodo è l’amicizia che lo lega al conte Baldassare Castiglione. Nel periodo di vita cruciale per entrambi si trovavano insieme al castello ducale di Urbino, quindi, non c’è mai stato uno scambio epistolare tra di loro perché si vedevano quotidianamente, ma Baldassare menziona Giuliano in alcune lettere (Castiglione 2016) alla madre, Aloisia Gonzaga Castiglione. Si tratta delle lettere 108, 109, 112, 128, 134, 144, 147, 153. In particolare, nella 147 (10 gennaio 1509) e 153 (26 febbraio 1509) accenna al fallimento del progetto matrimoniale con Clarice de’ Medici che, per volere di Giovanni de’ Medici, andò sposa di Filippo Strozzi nonostante le opposizioni di Giuliano che voleva mantenere promesse date all’amico Castiglione. Lo stesso Baldassare precisa (lettera 153):

Di quello che la M.V. ha preso così a core, veramente non senza gran ragione, pur non si po’ mo’ tornare indrieto: forsi che è per il meglio.  Da me non è venuto il difetto, e la M.V. lei stessa sa le parole che li disse il Mag.co. Io poi non cessava ogni dì de racordarlo; ma in effetto il Mag.co in questo caso non ha colpa, e so certo che a lui sommamente è dispiaciuto.

Possiamo essere ben certi di questa lealtà di Giuliano che fu da lui mostrata in tante altre occasioni ed era la sua caratteristica apprezzata dagli amici, Castiglione compreso, in linea anche con l’ideale del perfetto cortigiano che Giuliano in quegli anni felici di Urbino sembrava incarnare più di altri.

L’altro nucleo di lettere in cui Giuliano viene nominato è composto da quelle che girano attorno alla figura di Francesco Maria della Rovere, duca di Urbino, di cui Castiglione è emissario a Roma. Con la malattia di Giuliano che non riesce più a opporsi alle mire del fratello Leone X e del nipote Lorenzo, il piano di occupazione del ducato di Urbino prende piede con la scomunica del 1 marzo 1516 (lettere 304, 305, 306). In particolare, nella lettera 306, scritta a nome di Francesco Maria al collegio dei cardinali, viene ricordata l’ospitalità concessa dai duchi di Urbino al fratello del papa.  Occasionalmente, il nome di Giuliano appare nelle lettere del conte Castiglione successivamente, quando si parla del figlio illegittimo di Giuliano, Ippolito, oppure nei ricordi dei tempi passati (1044, 1434, 1434, 1456).

Senza dubbio il soggiorno urbinate fu per Giuliano il periodo di maturazione. Gli permise di condurre una vita dignitosa in compagnia di personaggi come Bembo e Castiglione che avrebbero determinato molti degli aspetti culturali (letterari, linguistici e di costume) non solo in Italia, ma anche in Europa. Giuliano, assieme ad altri ospitati allora alla corte urbinate reggeva quel confronto e diveniva anche lui parte del mito letterario di Urbino. Ciò gli permise anche di indagare a fondo il proprio animo e le proprie aspirazioni sia letterarie che politiche e lo preparò per le sfide future quando, assieme al fratello divenuto papa Leone X e al fido Bibbiena, era anche lui a decidere (ahimè, per un periodo molto breve) delle sorti della penisola appenninica. Rimase per sempre riconoscente ai signori di Urbino (in particolare a Elisabetta Gonzaga) per questa ospitalità tanto da mettere in secondo piano le priorità politiche negli anni 1515-1516 e opponendosi alle mire del fratello che voleva Urbino per la famiglia de’ Medici (l’occupazione divenne effettiva dopo la morte di Giuliano).

Personaggio letterario e letterato

Indirettamente al periodo urbinate è legata la fortuna di Giuliano come personaggio letterario. Nel Tirsi del Castiglione viene descritto in maniera seguente:

Venne d’Etruria un altro in questi monti,
Saggio o dotto pastore in ciascun arte.
Non son piagge qui attorno o rivi o fonti
Che non intendan le sue lode sparte;
Ma temo assai che prima il sol tramonti,
Ch’io possa dir di lui pur una parte;
Questo cantò con amorosa voce:
«Se fosse il passo mio così veloce».

Come nota Fatini, sebbene l’amicizia con il Castiglione non avesse raggiunto l’intimità di quella amicizia col Bibbiena (amico d’infanzia e di studi) e col Bembo, essa era salda perché si basava anche sull’apprezzamento dell’ideale cortigiano-cavalleresco che Castiglione avrebbe elogiato nel Cortegiano e che Giuliano in qualche modo sentiva come la propria aspirazione (Medici 1939, XXIX–XXX). 

È molto più importante la presenza e il ruolo avuto nell’opera maggiore dell’amico Pietro Bembo. Nel dialogo delle Prose, ambientato nel 1502, Giuliano difende il volgare “come favella a noi più vicina, più naturale e propria”. Assieme ad altri cerca di convincere Ercole Strozzi, umanista-latinista della maturità raggiunta dal volgare e, contro Carlo Bembo, rappresenta il partito del fiorentino vivo. Sostiene che “le scritture, sì come anco le veste e le arme, accostare si debbono e adagiare con l'uso de' tempi, ne' quali si scrive, con ciò sia cosa che esse dagli uomini, che vivono, hanno ad esser lette e intese, e non da quelli che son già passati” (Prose, I, XVII). Espone anche l’efficace paragone, poi controbattuto dal ragionamento di Carlo, portavoce dello stesso Pietro, circa l’assurdità dell’uso di una lingua non più parlata: “Perché, sì come voi e io saremmo da riprendere, se noi a' nostri figliuoli facessimo il tedesco linguaggio imprendere, più tosto che il nostro, così medesimamente si potrebbe per aventura dire, che biasimo meritasse colui, il quale vuole innanzi con la lingua degli altri secoli scrivere, che con quella del suo” (Prose, I, XVII). A lui poi, nel terzo libro, è demandato il difficile compito di esporre la grammatica del volgare in maniera precisa, elegante, senza sconfinare nei tecnicismi e pedanteria linguistica. Tenendo da parte il giudizio su quanto di reale e quanto di letterario e/o eristico ci fosse nella creazione del personaggio di Giuliano nelle Prose, appare evidente in ogni caso che a Giuliano spetta un posto di primo piano e che “la parte che il Magnifico ha in questo libro è stata dettata all’autore non solo dalla profonda amicizia per lui, ma anche dal ricordo delle discussioni e dal riconoscimento della competenza che in essa portava” (Medici 1939, XXVII). 

Infine, nei dialoghi del Cortegiano ha un ruolo, anche se non centrale, molto onorato. Diventa “pittore esperto della perfetta donna di corte” (Medici 1939, XXVIII) e contro le posizioni misogine di Gaspare Pallavicino e di Ottaviano Fregoso, difende le donne tracciandone il profilo idealizzato. Nel periodo urbinate conobbe anche Lodovico Ariosto che successivamente lo dipinse nelle Satire con queste parole:

Spirito gentil, che sei nel terzo giro
del ciel fra le beate anime asceso,
scarco dal mortal peso,
dove premiosi rende a chi con fede
vivendo fu d’onesto amore acceso.

Celebrato da molti suoi contemporanei come personaggio, apprezzato in quanto poeta nei suoi tempi, non ebbe però particolare fortuna presso i posteri rimanendo sempre all’ombra del padre Lorenzo, sicuramente più noto, più vivace e più originale. La voce propria di Giuliano, cioè le sue poesie, non brilla di eleganza né di intensità, come concorda sia l’editore della sua produzione letteraria Giuseppe Fatini (Medici 1939, CXXIX–CXXX) sia la storica della letteratura Maria Sticco (Sticco 1940, 145). Secondo loro, si salvano alcune poesie un po’ più originali con il tema di gelosia che accompagna l’amore e quelle da cui traspare un sincero e profondo amore verso la patria Firenze anche quando questa a torto, secondo lui, continua a tenere lontano la famiglia di Giuliano (Sticco 1940, 147–51). Tale giudizio forse sarà attenuato o modificato quando uscirà la nuova edizione delle rime di Giuliano annunciata recentemente da Giacomo Vagni (Vagni 2016).

Ritorno trionfale a Firenze

A seguito dell’accordo di Mantova del 1512 i Medici tornarono a Firenze dopo un lunghissimo esilio. Il 13 settembre Pietro Bembo si congratulava con Giovanni de’ Medici per questo grande avvenimento con le seguenti parole:

P.B. Ioanni Medici Cardinali legato /Magna me laetitia, magna voluptate affectum esse de tuo, deque Iuliani fratris tui tam secundo in patriam reditu, de hac in vos tam propensa Deorum hominumque voluntate, etiam tacente me, puto tibi esse perspectissimum. / Idibus Septemtribus. MDXII. Roma (Bembo 1987, 62)

Giuliano prese il governo della città e si dimostrò molto pacifico. Non seguirono rappresaglie come qualcuno a Firenze temeva. Anzi, universalmente noto “per la mitezza d’animo e per il desiderio di vivere tranquillamente” (Medici 1939, XXXV), cercò di adeguarsi allo stile di vita e addirittura al modo di vestire dei concittadini. Per sottolineare il ritorno dei bei tempi e ripristinare la memoria delle famose feste organizzate da Lorenzo de’ Medici venti o trent’anni prima, nel mese di novembre Giuliano fondò, con un gruppo di giovani nobili, la compagna del Diamante che organizzava giochi e feste di carnevale, con carri, mascherate e trionfi. Così si diede l’inizio al carnevale del 1513 in cui sembrava che ritornassero gli anni spensierati e allegri del padre Lorenzo. Due compagnie, quella del Diamante e quella del Broncone, organizzata da Lorenzo di Piero de’ Medici, si diedero “battaglia” a suon di carri dipinti da Jacopo Pontormo e canzoni composte per l’occasione (Medici 1939, XL–XLI). L’anno (1513) si apriva quindi come anno di trionfo e si chiudeva poi con ancora migliori prospettive quando, alla morte del papa Giulio II, fu eletto papa Giovanni de’ Medici con il nome di Leone X. Si farebbe un errore pensando solo a fortuna e a casualità. Certe, per questo cambio decisivo nella vita dei fratelli, ma ci voleva anche grande abilità dimostrata sia da Giovanni che dal suo fido segretario Bibbiena e dal cugino Giulio. L’elezione al soglio pontificio del fratello apriva nuove prospettive anche a Giuliano. Seguirono anni travagliati, pieni di progetti e di piani, alcuni realizzati, altri no. Ciò che non si può mettere in dubbio è la centralità della figura di Giuliano nei piani politici di Leone X che, secondo l’uso consolidato di allora, attraverso il papato costruiva le future fortune del casato de’ Medici. Alcune lettere del Bibbiena, indirizzate a Giuliano ne sono la conferma. Il 16 febbraio 1515 Bibbiena ribadisce a Giuliano quanto sia importante la sua figura per la casata de’ Medici:

Ricordatevi che dopo N[ostro] S[ignore] ognuno mira a voi, essendo la persona vostra quella, nella quale i pensieri, i concetti, e i disegni del Papa si specchiano.  Et anche vi ricordo, che ogni opera, e attion vostra non è considerata e notata manco, che quella di N.S. (Ruscelli 1562)

E ancora l’11 marzo 1515:

Sua Santità è piu che mai ardente al vostro bene, et honore, e sono certo lo dimostrerà con effetto. (Ruscelli 1562).

L’anno 1515 fu anche quello del matrimonio con Filiberta di Savoia, imparentata con il re francese Francesco I. All'occasione Giuliano ottenne dal re il titolo di duca di Nemours e ricevette anche la carica di capitano generale della Chiesa (Tabacchi 2009). In quell’occasione “Il Magnifico si scelse come motto allusivo alla sua fortuna sei lettere disposte a mo’ di triangolo: GLOVIS, che lette a rovescio significano Si volg(e)” (Medici 1939, LXXI).  Questa informazione è molto utile per la datazione dell’opera di Filicaia, in quanto il motto GLOVIS appare nel frontespizio e il matrimonio di Filiberta con Giuliano è descritto nell’introduzione alla quarta parte dell’opera.

L’anno 1515 segnò anche l'inizio di una grave malattia che causò la morte di Giuliano avvenuta il 17 marzo 1516. Con la sua dipartita svanivano in parte i grandiosi progetti della famiglia guidata dal fratello Giovanni salito al soglio pontificio con il nome di Leone X. Di lì a poco sarebbe morto anche Lorenzo di Piero de’ Medici, nipote del papa e le ambizioni secolari della famiglia ne uscivano ridimensionate. Tuttavia, il funerale di Giuliano fu l’occasione per mostrare il forte legame tra la famiglia e la città di Firenze, con l’esplicito invito alla riappacificazione sotto la guida medicea. Tale intento traspare in maniera evidente dall’orazione tenuta dal cancelliere Marcello Virgilio Adriani (John M. McManamon 1991). Giuliano, con il carattere non prevaricatore, molto attento alle forme della vita civile, con la magnanimità principesca, era benvoluto dai fiorentini come era amato prima da principi, sovrani e cortigiani ovunque prendesse dimora.

Un aspetto interessante del carattere e dell’agire di Giuliano è la sua curiosità e la magnificenza verso gli artisti e gli studiosi. Giuliano era interessato p.es. a nuove scoperte geografiche e quelle nuove regioni orientali che si aprivano davanti ai viaggiatori del primo Cinquecento, come testimonia la lettera-relazione di Andrea Corsali del 1515 spedita da Cochin (India).

Illustrissimo Signor, non potendo manchar a V.S. di quanto le promissi nel partirmi di costì, ho voluto farle questo poco di discorso p(er) darle notitia del successo del mio viaggio d’India. (Ramusio 1550, 192v)

Il perché della dedica

È ovvio che, dal punto di vista del presente lavoro, quanto ci interessa di più, è legato agli interessi culturali che Giuliano coltivava e al suo rapporto con la matematica. Il trattato di Piero di Niccolò da Filicaia non è l’unica testimonianza riguardante l’interesse del figlio di Lorenzo nei confronti della matematica. Già Filippo Calandri, nel suo trattato Aritmetica, scrive degli interessi del giovane Giuliano per la matematica dedicandogli la sua opera (Calandri 1491):

Philippi Calandri ad nobilem et studiosum Julianum Medicem de arithmetica opusculum.
Considerato, nobile et studioso Juliano Medice, quanto sia utile, anzi necessaria, la scientia arimethrica al comertio humano et maxime a quegli che exercitano la mercatura, di che la ciptà Fiorentina sanza controversia fra l’altre tiene il principato, et veduto la grata et celebre audientia degli studiosi adolescenti fiorentini in questa mia giovenile età, m’è paruto conveniente le cose da me udite a llor maggiore utilità sotto brieve compendio ridurre et quelle secondo lo stile fiorentino non con piccola mia fatica, per le multiplice difficultà che agli pressori ocorrevano, per più comodità fare imprimere. Il che avendo per la divina gratia absoluto et volendo di già questa mia operetta andare in luce, accioché con maggiore gratia et auctorità vada, a te, Juliano Medice, la dirizo et dedico, che se’ di tale scientia fra l’altre studioso, et secondo l’optimo costume de tua antecessori della publica utilità et honore amatore et defensore, la quale, se da te, come spero, sarà aprovata, mi sia stimolo di maggior cose a tentare et più artificiose. Vale.

Se consideriamo questa dedica che testimonia l’interesse di Giuliano per la matematica sin dalla tenera età e la popolarità a Firenze dei giochi matematici che costituivano uno svago colto, ma diffuso, non ci sorprende che il nostro Autore cerchi l’appoggio di Giuliano. A ciò si aggiunge l’atteggiamento filomediceo di Piero, rinforzato dai citati legami famigliari con questa casata, e la popolarità di mecenate di cui Giuliano godeva tra gli artisti. Negli anni in cui il trattato veniva composto Giuliano aveva alle sue dipendenze Raffaello e Leonardo, oltre a letterati e diversi altri personaggi potenzialmente in grado di apprezzare l’opera sui giochi matematici.

Una conferma del fatto che Filicaia volesse entrare nelle grazie di Giuliano e far parte della sua cerchia più stretta ci arriva dall’introduzione della quarta parte. Si tratta della visione onirica delle nozze tra Giuliano e Filiberta. Il duca viene rappresentato seduto su un trono d’oro adagiato su una nuvola, mentre la consorte siede su un trono anch’esso posizionato su una nuvola sorretta da due leoni. Ciò è anche una indiretta testimonianza della trasformazione a cui era sottoposto il potere a Firenze. L’atmosfera gioiosa qui rappresentata trova la sua conclusione nella dichiarazione di Filicaia in cui egli afferma di voler rimanere con loro con tutto il cuore. La conservazione delle apparenze repubblicane così importante ancora due generazioni prima, negli anni subito postrepubblicani non è mantenuta. Il potere della famiglia medicea sta evolvendo verso un tipo di potere signorile.

Negli anni di cui trattiamo è difficile affermare si tratti di una vera e propria corte (di solito viene usata la parola “famiglia”), sebbene molte caratteristiche della famiglia medicea e delle corti italiane erano comuni. A p. 51 dell’edizione delle lettere di Matteo Franco si riassume il contenuto di un interessante documento del 1492 (segnato MAP, F. CIV n. 57, cc. 580-585 dell’ASF), intitolato “Ritratto della ispexa della gita a Roma”. Da esso apprendiamo che la famiglia medicea, cioè la corte, contava circa 50 persone. Ugualmente numerosa e di simile composizione era la famiglia (o la corte) di Giuliano negli anni del ritorno al potere a Firenze. Non si trattava però di una corte formale, piuttosto di una corte civile composta veramente dalla famiglia più alcuni intimi tra i concittadini. Chi ne faceva parte godeva di numerosi vantaggi, quindi era ambizione di molti fiorentini servire i Medici, il che comportava anche, in pratica, una vita in comune, da corte. Tuttavia, bisogna ricordarsi che la natura stessa del potere mediceo era quella ‘repubblicana’ con Lorenzo o poi Giuliano che era formalmente ‘primus inter pares’. La quotidianità di vita non era data solo dall’esercizio dal potere, anzi, un ruolo importante veniva assegnato a svaghi, feste, interessi culturali. Tra gli svaghi di una cerchia di amici che vogliono compiacere gli interessi del loro primo cittadino, non poteva mancare il gioco matematico, frutto di cultura mercantile e del neoplatonismo fiorentino con il suo culto dei numeri nello stesso momento. Giuliano, per le suddette ragioni, è dedicatario ideale di un trattato che costituisce una specie di manuale del divertimento dotto, pervaso di una forte componente idealistica.

Del resto, non solo lamatematica, ma anche altre scienze ad essa legate, entrano nell’orbita degli interessi di Giuliano de’ Medici. Quando Fra Giocondo, un altro personaggio legato alla famiglia, prepara la seconda, riveduta edizione del trattato De architectura di Vitruvio nella dedica a Giuliano scrive:

Virtutes tam liberales, quanto quam mechanicae tanto magis proficiunt perficiunturque, quanto apud eos tractantur, qui illarum delectationibus detinentur et indefesso sollertive studio eas persequuntur, ut de te audio, Juliane Medices vir optime et earum studiosissime, cuius fama cicrumfertur, quod nihil a patre et proavis tuis excellenti ingenio et maximis virtutibus praeditis degeneras (Vitruvius 1513)